Il morire tra eutanasia e accanimento

 

Il morire

Il morire tra eutanasia ed accanimento

Morire oggi con dignità umana

Il Centro Culturale S. Dionigi ha curato, mercoledì 3 febbraio, una serata sul morire umano. Il pubblico ha seguito con ammirevole attenzione questo tema così inquietante e difficile; il moderatore prof. Walter Ornaghi ha impreziosito la serata con un’utile introduzione e la toccante conclusione. Mi è stato vivamente chiesto di presentare sul Notiziario Parrocchiale le problematiche principali e molto difficili, alla luce dei sei principali documenti della Chiesa e sullo sfondo della vicenda di Eluana e dei dibattiti per l’elaborazione della legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento.

Poiché parliamo del morire umano facciamo riferimento alla persona come autodeterminazione non “assoluta” (che porterebbe al diritto all’eutanasia-suicidio) ma “razionale”, nel senso che io decido di me ma ciò che decido deve essere giusto, vero, buono, in riferimento anche a Dio e alle altre persone. È razionale il principio morale fondamentale: “un valore si amministra, non si distrugge”. La vita umana – valore grandissimo – si deve ‘realizzare’ con le possibili libere scelte delle potenzialità del mio io, non ‘distruggere’ eliminando la capacità stessa di scelta, la volontà, la vita.

In particolare l’eutanasia è un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle

intenzioni e dei metodi usati. L’eutanasia attiva (con un veleno) od omissiva (omettendo un farmaco salvavita o l’alimentazione) è pur sempre una ingiusta ‘distruzione’ della persona, che, pur fra tanti disvalori del fine vita, finché è viva è un valore da non distruggere.

Molto più complesso è il discorso sull’accanimento. Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, l’accanimento si verifica quando si ricorre a procedure mediche onerose, pericolose, sproporzionate rispetto ai risultati attesi, riuscendo solo a protrarre di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze, perché l’uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato lo condannano di fatto ad un’agonia prolungata artificialmente. In questo caso è lecito rinunciare a questo “accanimento”: non si vuole così procurare la morte, si accetta di non poterla impedire. L’azione umana accanita ottiene il bene di un precario prolungamento della vita biologica, ma ottiene anche il male molto maggiore di porre in una condizione di morte ‘disumana’ sia per l’accresciuta penosità indotta sia per l’isolamento dalle relazioni umane così importanti nella situazione di fine vita. In parole semplici si deve dire che l’azione umana fa più male che bene al malato, e quindi si può-deve omettere. Attenzione ai 2 tipi di ‘penosità’: quella dovuta alla malattia del malato e quella indotta ed aggiunta dall’azione medica che diventa accanimento. La liceità della rinuncia all’accanimento terapeutico si riferisce solo alla seconda penosità. Spesso sia nella tragica vicenda di Eluana sia nel dibattito parlamentare si sente dire: “Ma che vita è questa? Questa non è vita. Si rinunci all’accanimento di terapie e nutrizioni che non guariscono e prolungano la penosità”. Io direi anzitutto che la persona è viva, anche in stato vegetativo persistente, finché non subentra la morte di tutto l’encefalo. Inoltre qui ci si riferisce alla prima penosità incurabile, che si vuole evitare con l’eutanasia omissiva. Si fa passare per rinuncia all’accanimento quello che invece è eutanasia omissiva. In questa si rinuncia a ciò che è necessario per la vita del malato; nell’accanimento invece si rinuncia a un’azione che indurrebbe una seconda ulteriore penosità. Come autorevole esemplificazione della giusta rinuncia all’accanimento terapeutico abbiamo esaminato il comportamento di Giovanni Paolo II nella ricostruzione del suo segretario personale don Stanislao Dziwisz: “Il 31 marzo 2005 la febbre era quasi a quaranta, e i medici diagnosticarono subito che era subentrato un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a una infezione delle vie urinarie. Stavolta, però, niente ricovero. Ricordai al dottor Buzzonetti la ferma volontà del Papa di non tornare più in ospedale. Intendeva soffrire e morire a casa sua, presso la tomba di Pietro. E, a casa sua, i medici avrebbero potuto benissimo assicurargli le cure indispensabili”.

Si ripete nel mondo cattolico che la rinuncia all’accanimento terapeutico non comprende la rinuncia all’alimentazione ed idratazione. Respirare, bere, mangiare sono atti terapeutici o mezzi naturali di sostegno alla vita? Nel primo caso si ha diritto di rinunciare, anche se non c’è accanimento, in base all’Art. 32 della Costituzione Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario […]”. Nel secondo caso la rinuncia diventa eutanasia omissiva. A me sembra che alimentazione e respirazione siano mezzi naturali di sostegno alla vita: altro è prendere una medicina da parte di un malato ed altro mettersi a tavola ogni giorno per fare un buon pranzo con l’appetito di una persona proprio sana. Rimangono tali anche se si utilizzano strumenti tecnici ed anche se interviene un’altra persona. L’installazione del sondino è un atto medico ma ciò che nutre il malato resta cibo e bevanda, non diventa medicina. Comunque alimentazione, idratazione e respirazione sono atti dovuti (per evitare l’eutanasia omissiva) ma potrebbero diventare accanimento (alimentare) proprio come l’accanimento terapeutico. In questi casi sia l’accanimento terapeutico sia quello alimentare si possono-devono omettere. “L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia”; “La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria”; “La somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio,ma per complicazioni sopraggiunte, il paziente potrebbe non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali”. Come si vede in questi documenti della Chiesa si insegna che l’alimentazione è doverosa, ma potrebbe a volte configurarsi come accanimento da evitare. L’atto terapeutico, necessario, potrebbe diventare o configurarsi come accanimento terapeutico, da evitare. L’alimentazione, necessaria, potrebbe diventare o configurarsi come accanimento alimentare, da evitare. Si deve esaminare bene il contesto per capire se siamo nella situazione necessaria o da evitare. Non capisco perciò nella Proposta di legge 2350 (DAT, approvata al Senato ed ora in discussione alla Camera) l’art. 3, comma 5: “l’alimentazione e l’idratazione […] sono forme di sostegno vitale. […] Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. Si esclude a priori che possano diventare accanimento; ciò suscita la giusta critica dell’opposizione, che però vorrebbe servirsene in senso eutanasico.

Circa il Testamento biologico (DAT) occorre dunque aspettare l’approvazione della legge. Occorrerà evitare i termini oggi diventati ambigui, mentre sarà bene ribadire richieste come la terapia del dolore, l’assistenza religiosa, l’eventuale donazione di organi. Si deve garantire la vera libertà di scelta dell’anziano.

Nell’ultima parte della serata siamo passati agli aspetti più pratici: quattro prospettive per il malato terminale cosciente, che vuole evitare l’accanimento e l’eutanasia. Anzitutto fornire gli strumenti tecnologico-sanitari adeguati: persone compromesse nella parola e nei gesti riescono con questi strumenti ad ampliare la limitata autonomia corporea ed a comunicare con altre persone. Abbiamo poi insistito, con l’esperienza del pubblico, sulla terapia del dolore, oggi pienamente consentita anche in Italia. Già nel 1957 Pio XII affermava moralmente lecito l’uso massiccio di sedativi, anche se dovesse condurre alla perdita della coscienza (una volta adempiuti tutti i doveri religiosi e morali) ed anche se comportasse una solo tollerata abbreviazione della vita. La terza prospettiva per queste persone è offerta dalla vicinanza umana: riuscire a trasmettere la sensazione certa che sei ancora un valore per gli altri e non sei un fastidio per loro. La quarta importante prospettiva è data dalla fede-speranza cristiana. “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8, 17s.). “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Prof. don Piero Barberi